LA SCUOLA FENOMENOLOGICA
Il termine
fenomenologia ha cambiato spesso di significato nel corso del tempo.
Tradizionalmente indicava la teoria delle apparenze sensibili e più o
meno in questo senso, ossia come scienza dell'esperienza sensibile, era stato
usato anche da Kant. Hegel aveva esteso il suo valore a indicare il processo che
la coscienza deve attraversare per giungere alla piena manifestazione di se
stessa, ossia il passaggio dello Spirito dalla coscienza naturale (soggettiva)
alla coscienza universale, che è il «vero sapere». La
fenomenologia diventava cioè «la scienza dell'esperienza della
coscienza». Ancora diverso è il significato oggi più diffuso
del termine, legato all'opera del tedesco Edmund Husserl (1859-1938), che lo ha
usato per indicare non questa o quella parte della filosofia, ma tutt'intera una
filosofia, o, meglio, un metodo filosofico consistente nell'attenta descrizione
dei processi psichici e di ciò che in essi si manifesta alla coscienza
(Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica,
1913).
Husserl era partito da un vecchio problema: è possibile una
conoscenza certa? Kant, un secolo avanti, aveva indicato le scienze fisiche e
matematiche come l'unico settore in cui le nostre conoscenze risultano
necessarie e universali. Sul finire dell'Ottocento l'intero mondo scientifico e
in particolare quello dei fisici e dei matematici, si stava interrogando sulla
certezza delle proprie conoscenze. Erano uscite risposte disparate, ma tutte
ispirate a grande cautela: era la nozione stessa di verità che ormai
«andava stretta» (se così si può dire) al mondo
scientifico.
Husserl faceva parte di questo mondo. Era stato allievo e poi
assistente di uno dei più grandi matematici del tempo, Karl Weierstrass,
e aveva delineato il suo programma fenomenologico proprio in relazione a una
delle grandi discussioni allora in corso tra matematici, quella tra logicisti
(rappresentati da Gottlob Frege) e psicologisti (rappresentati da Franz
Brentano) a proposito della natura dei concetti logico-matematici. Franz
Brentano (1838-1917), uno dei maestri di Husserl, assumeva come criterio di
certezza l'evidenza dei dati immediati della coscienza e tendeva a ricondurre
ogni sapere, compreso il sapere logico-matematico, alle operazioni psichiche
elementari che ne sono alla base. Frege replicava ricordando la differenza che
passa tra la genesi empirica dei concetti, che interessa la psicologia, e il
loro significato universale: alla matematica, diceva Frege, non interessa
affatto sapere quali meccanismi psicologici presiedano alla formazione del
concetto di due; interessa definire il valore formale della
dualità.
Anche Husserl, dopo una iniziale adesione, finì con
il respingere lo psicologismo di Brentano, ma respingeva ugualmente il
formalismo di Frege e dei logicisti e il loro ostentato disinteresse per
l'origine dei significati logico-matematici. Il problema, più in
generale, era quello dell'universalità del pensiero e dei suoi
fondamenti. Secondo Husserl fondare i concetti logico-matematici sull'evidenza
dei dati della coscienza non significava affatto rinunciare al loro carattere
necessario e universale. Ciò che si esperimenta nel flusso della
coscienza non è infatti soltanto la consapevolezza dei processi psichici
che vi avvengono, ma la consapevolezza, anche, di oggetti, o «cose», a
cui questi processi fanno riferimento. La caratteristica fondamentale di tutti i
processi psichici, che Husserl chiamava «intenzionalità»,
è appunto questo loro essere necessariamente coscienza di qualche cosa.
Questo oggetto della coscienza è irriducibile alla pura
soggettività dei processi psichici, trascende il puro fatto di
coscienza.
Husserl proponeva in sostanza un «ritorno alle cose»
mediante una attenta descrizione fenomenologica delle cose stesse quali
concretamente si manifestano alla coscienza (in un primo momento in luogo di
«fenomenologia» aveva parlato di «psicologia descrittiva»).
Non si può negare che l'espressione «ritorno alle cose» fosse
molto equivoca (e molti infatti equivocarono). Le «cose» di Husserl
avevano poco a che fare con ciò che l'uomo comune intende per cose e
ancor meno con ciò che intende lo scienziato. Per coglierne il senso,
anzi, era necessario, secondo Husserl, «mettere tra parentesi» tutto
quello che il senso comune e la scienza assumono come ovvio, evidente o certo: a
proposito di questa «messa tra parentesi» Husserl parlava di
epoché, un termine dell'antico scetticismo, che, come si
ricorderà, indicava la sospensione del giudizio.
Le «cose»
di Husserl sono gli oggetti della coscienza. Se, ad esempio, ascoltiamo un
suono, ne abbiamo coscienza sia come evento fisico particolare, ed è la
«cosa» che interessa l'uomo comune o lo scienziato, sia, ed è
la «cosa» che interessa il filosofo, come ciò che fa di quel
suono un suono, e cioè come forma essenza, idea del suono. Husserl
distingueva dunque l'intuizione empirica degli oggetti (quel suono) e
l'intuizione «eidetica» (da eidos = «idea»,
«forma»), che è la comprensione diretta dell'essenza
(ciò che fa di quel suono un suono). Dal punto di vista fenomenologico
non ha nessuna importanza che l'oggetto d'esperienza esista davvero; ciò
che conta è il suo modo di manifestarsi alla coscienza. In questo senso
la fenomenologia si distingue nettamente dalla scienza comunemente intesa. Per
la scienza è fondamentale stabilire se un certo oggetto è reale
oppure no. Per la fenomenologia, invece, la cosa è del tutto indifferente
ed è indifferente la stessa distinzione tra realtà e
rappresentazione della realtà. Il fatto che un suono come evento
fisico-acustico non esista nella realtà (nel caso di un'allucinazione, ad
esempio) non impedisce né ostacola minimamente l'intuizione eidetica,
cioè la comprensione intuitiva della sua essenza quale si manifesta alla
coscienza. Naturalmente possiamo sempre dire che l'intuizione empirica di chi
crede di aver udito quel suono è falsa, ma dal punto di vista
fenomenologico la cosa è totalmente priva d'importanza.
Il metodo
specifico del filosofo, la via per giungere alle «cose», era, per
Husserl, la cosiddetta «riduzione fenomenologica». Benché il
nome fosse nuovo, non si può dire che fosse nuova la cosa: si trattava
pur sempre, infatti, di definire un'essenza universale a partire dagli oggetti
dell'esperienza, ossia dai dati della coscienza. Chiacchierando con Eutifrone,
molti secoli prima di Husserl, Socrate aveva operato la sua brava riduzione
fenomenologica di quella particolare «cosa» che è la
santità. Con la differenza che Socrate aveva concluso la chiacchierata
con Eutifrone dichiarandosi - molto compiaciuto - di saperne meno di prima,
mentre Husserl immaginava che la fenomenologia potesse essere costruita come una
scienza rigorosa, destinata anzi ad essere la «scienza prima», diversa
da tutte le altre proprio per questo suo incomparabile rigore e per la
solidità delle sue basi.
La solidità di queste basi era
affidata, in verità, ancora una volta, ad un'argomentazione tutt'altro
che nuova. Husserl ripeteva infatti con Cartesio che nessun dubbio, per quanto
radicale, può mettere in discussione la coscienza. Posso essere in dubbio
sul fatto che alla mia idea del tavolo corrisponda davvero qualcosa nella
realtà (e questa corrispondenza, aveva osservato Cartesio, non c'è
nei sogni, e purtroppo non abbiamo nessun criterio sicuro per distinguere i
sogni dalla veglia). Non posso però mettere in dubbio che ho l'idea del
tavolo, cioè che l'idea del tavolo esiste in quanto idea.
È
proprio per questo che possiamo fare oggetto di indagine qualsiasi cosa si
presenti alla nostra coscienza, indipendentemente dalla sua esistenza effettiva.
I critici hanno discusso a lungo se le cose o essenze ideali di cui parla
Husserl siano affini alle idee di Platone oppure no. Parrebbe proprio di
sì, perché altrimenti sarebbe arduo capire di che cosa volesse
parlare. Occorre tuttavia rammentare che il chiarimento del pensiero husserliano
in questo senso è stato graduale, e che è costato a Husserl la
perdita di molti seguaci che, tra gli inizi del secolo e la prima guerra
mondiale, gli si erano avvicinati proprio perché avevano attribuito un
valore antiidealistico al suo «ritorno alle
cose».
L'attività di Husserl si è chiusa con una famosa
e malinconica diagnosi della crisi della civiltà europea (La crisi delle
scienze europee e la fenomenologia trascendentale, un'opera rimasta incompiuta e
pubblicata solo nel 1954) formulata dopo l'avvento del nazismo, quando Husserl,
che era ebreo, era stato radiato dall'Università.
Secondo Husserl la
parzialità e la frammentazione del sapere scientifico specializzato era
il sintomo di una crisi generale della nozione di razionalità. Questa
crisi affondava le sue radici nel fatto che la razionalità veniva intesa
in modo riduttivo, limitandone il dominio al solo mondo naturale, dimenticando
così il momento soggettivo, il ruolo della coscienza, che rende possibile
la stessa rappresentazione del mondo naturale. La scienza, affermava Husserl,
tende a concepire il mondo come insieme di realtà chiuse e definite,
fissate una volta per tutte, mentre la realtà storica in cui essa
è nata e in cui progredisce è in continuo sviluppo. La filosofia
deve recuperare la concretezza del processo della vita, riconoscendo alla
scienza e alla tecnica la loro importanza, ma sottolineando i rischi della loro
feticizzazione, cioè l'illusione che la scienza possa spiegare ogni cosa.
Al di fuori delle scienze della natura esiste un complesso «mondo della
vita», che è appunto compito dell'analisi fenomenologica indagare in
tutti i suoi aspetti.
INTENZIONALITÀ
Husserl definiva il rapporto della
coscienza con i suoi oggetti mediante la nozione di
«intenzionalità» che però era stata elaborata da Franz
Brentano. La caratteristica fondamentale dei fenomeni psichici, secondo
Brentano, era il loro necessario riferirsi (o «tendere») a un oggetto:
ogni atto psichico è coscienza di un oggetto e il modo in cui la
coscienza si volge ai suoi oggetti (il modo cioè in cui li
«intenziona») determina il carattere degli oggetti stessi. Brentano
aveva tratto la nozione di intenzionalità dalla vecchia terminologia
scolastica, dove intentio indicava l'atto del conoscere (dal latino intendere =
«mirare a») e dove si faceva distinzione tra intentio prima il cui
oggetto è una cosa in sé (esterna alla coscienza), e intentio
secunda, il cui oggetto è una rappresentazione (o uno stato della
coscienza). Brentano aveva sostenuto che solo gli oggetti «di seconda
intenzione» sono certi in quanto oggetti di percezioni evidenti, mentre la
conoscenza degli oggetti esterni alla coscienza («di prima
intenzione») ha un valore meramente probabile. Di qui la sua decisione
(punto di partenza di tutto l'indirizzo fenomenologico) di rivolgere la propria
ricerca alle cose non come sono, ma come appaiono nell'orizzonte intenzionale
del soggetto.
L'ESISTENZIALISMO
Nel 1919, nello stesso anno in cui usciva
la Psicologia delle visioni del mondo di Karl Jaspers (1883-1969), considerata
la prima manifestazione significativa dell'esistenzialismo tedesco, Husserl
nominava suo assistente all'università di Friburgo Martin Heidegger
(1889-1976) destinato a diventare il massimo esponente dell'esistenzialismo. Per
qualche anno, e cioè fino alla pubblicazione nel 1927 di L'essere e il
tempo di Heidegger, la vita e la riflessione dei due parvero procedere in
parallelo, poi si separarono sempre di più. L'essere e il tempo era
dedicato a Husserl «con ammirazione e amicizia», ma era già
frutto di questa divergenza. Nel 1931 Husserl avrebbe attaccato apertamente la
filosofia dell'esistenza di Heidegger. Nel 1933 l'avvento del nazismo in
Germania significò per Husserl la radiazione dai ruoli
dell'Università; per Heidegger, che aderì sollecitamente al regime
e al partito nazionalsocialista, significò la nomina a rettore
dell'Università di Friburgo. Dopo la sconfitta della Germania nella
seconda guerra mondiale, le autorità di occupazione nell'ambito della
campagna di denazificazione sospesero Heidegger dall'insegnamento; nel 1951 fu
definitivamente messo in pensione.
Di Husserl Heidegger aveva accettato
innanzi tutto il metodo dell'analisi fenomenologica. Mentre però in
Husserl l'oggetto di questa analisi era la coscienza, in Heidegger era
l'esistenza dell'uomo. Heidegger cioè si serviva del metodo
fenomenologico per portare alla luce le presunte «strutture
fondamentali» dell'esistenza umana. Di queste strutture, sull'esempio di
Kierkegaard e in aperto contrasto con le tradizioni del razionalismo, dava una
connotazione eminentemente emozionale: attribuiva loro, infatti i nomi di due
sentimenti, la «cura» (in tedesco Sorge = «ansietà»,
«preoccupazione», «affanno») e l'«angoscia» (in
tedesco Angst).
L'angoscia è la condizione di chi sta (e sa di
essere) sull'orlo del nulla. Il sentimento dell'angoscia non deve però
essere confuso con la banale paura della morte. La paura della morte è
una manifestazione di debolezza, mentre l'angoscia è semmai
«presentimento di morte», e cioè è in definitiva l'atto
di coraggio con cui l'uomo guarda in faccia la propria esistenza e la trova
priva di significato. L'angoscia definisce così la dimensione che
Heidegger chiamava «autentica» della vita perché nasce dalla
considerazione della morte, che è ciò che vi è di
più proprio per l'uomo: nessuno può assumere su di sé la
morte di un'altro, nessuno può morire al posto di un altro, nessuno
può sperimentare la sua propria morte.
Poiché la situazione
in cui si manifesta il sentimento dell'angoscia è tutt'altro che
gradevole, si ha solitamente la caduta nell'esistenza «inautentica»,
che è caratterizzata da un'ansietà inesauribile, dalla
«cura» assillante per le cose di tutti i giorni, dalle infinite
occupazioni e preoccupazioni della vita quotidiana. Tipico dell'esistenza
inautentica, quotidiana, «banale» (come anche la chiamava Heidegger),
è proprio il sentimento della paura: non potendo sopportare il peso
dell'angoscia, l'uomo devia sugli oggetti del mondo esterno quella
pericolosità che in realtà è l'immagine della propria
solitudine nell'universo e il sentimento della mancanza di significato
dell'esistenza.
Se l'esistenzialismo deve a Heidegger il contributo teorico
più massiccio, la popolarità della corrente negli anni a cavallo
della seconda guerra mondiale è stata principalmente opera del francese
Jean Paul Sartre (1905-1980), fortunato autore di romanzi e lavori teatrali,
oltre che filosofo e saggista. La sua prima grande affermazione come scrittore
venne nel 1938 con il romanzo La nausea, che è il racconto
dell'improvviso emergere nella coscienza di un intellettuale del sentimento di
esistere, preceduto e accompagnato da una violenta ripugnanza, la
«nausea», appunto, per tutto ciò che fino a quel momento aveva
riempito la sua esistenza: gli oggetti familiari, i libri, le persone, il lavoro
stesso.
Scoppiata la seconda guerra mondiale, nel corso della breve
campagna che segnò la sconfitta della Francia, Sartre fu fatto
prigioniero dai tedeschi. Liberato nel 1941 e tornato in Francia, aderì
alla Resistenza. La prigionia e poi la partecipazione alla Resistenza segnarono
l'inizio di una nuovo corso nella vita e nel lavoro di Sartre: mentre prima
della guerra era stato soprattutto uno spettatore degli avvenimenti del suo
tempo (si è detto che si limitava a «seguire dal marciapiede» i
cortei del Fronte Popolare) dopo la guerra ne fu sempre, e appassionatamente,
partecipe.
A differenza di quanto accadde a tanti altri intellettuali del
suo tempo, l'impegno politico di Sartre non significò mai connivenza o
subalternità nei confronti del potere, qualunque fosse il suo colore.
Negli anni della guerra fredda, ad esempio, si trovò schierato più
volte con i comunisti, il che non gli impedì di denunciare con piena
lucidità le degenerazioni dello stalinismo. Nel 1962 rifiutò il
premio Nobel, perché, spiegò più tardi, l'intellettuale
premiato è un intellettuale imbalsamato.
Per Sartre
l'esistenzialismo era prima di tutto «umanismo», nel senso che
l'esistenzialismo (anche quello di Kierkegaard e di Heidegger) aveva rovesciato
il tradizionale rapporto tra essenza ed esistenza, secondo il quale l'essenza
precede e sta a fondamento dell'esistenza. Se fosse vera questa successione,
l'uomo reale e concreto, il singolo in tutta la sua determinatezza, non sarebbe
nulla se non possedesse in sé l'essenza o non partecipasse in qualche
modo dell'essenza dell'uomo. Per Sartre, invece, ciò che viene prima
è l'esistenza, e cioè l'uomo, mentre l'essenza, cioè l'idea
che l'uomo si fa di se stesso, deriva interamente dal tipo di esistenza che egli
si trova a vivere. Qui però Sartre scorgeva la paradossalità della
condizione umana, e la ragione del fatto che essa si risolve sempre in
fallimento e scacco: se l'esistenza precede l'essenza, ossia se non ha alcun
fondamento o alcuna giustificazione, non può alla fine non essere
riconosciuta per quello che effettivamente è: totalmente assurda
(L'essere e il nulla, 1943).
In un secondo momento, nel dopoguerra, Sartre
ha modificato notevolmente le conclusioni negative del suo esistenzialismo,
largamente influenzate da Heidegger (L'essere e il nulla, si richiamava
già nel titolo all'opera più nota del filosofo tedesco, L'essere e
il tempo), trovando nell'impegno politico la strada per restituire un senso
all'agire umano. In questa direzione Sartre non poteva non incontrare il
marxismo, le cui teorie circa l'interpretazione della storia e i modi
dell'azione rivoluzionaria gli sembravano perfettamente conciliabili con la
concretezza dell'approccio alla realtà proprio dell'umanismo
esistenzialistico. Il marxismo a cui Sartre si riferiva era però
l'originario pensiero di Marx e non aveva nulla a che fare con la tetra
ideologia che i partiti comunisti spacciavano sotto questo nome: nella Critica
della ragione dialettica, del 1960, Sartre prese le dovute distanze dal
cosiddetto «materialismo dialettico» e dallo stalinismo, definiti una
«Scolastica della totalità» del tutto incapace di cogliere il
valore autonomo e irriducibile dell'individuo e di costruire quella «teoria
del soggetto» che al marxismo (quello vero) era sempre
mancata.
IL CIRCOLO DI VIENNA
Nei primi anni del Novecento alcuni amici,
studiosi di diverse discipline, tra cui il matematico Hans Hahn (1979-1934), il
fisico Philip Frank (1884-1966), il sociologo Otto Neurath (1882-1945), ecc.
erano soliti ritrovarsi alla sera in un caffè di Vienna per conversare e,
dati i loro interessi, il discorso cadeva per lo più sulla rivoluzione in
corso nella matematica e nella fisica, sui rapporti tra scienza e filosofia e
sull'opportunità di reintrodurre nell'una e nell'altra un po' di quello
spirito positivo che, anche per le colpe oggettive del positivismo, era allora
così poco di moda. Queste riunioni serali sono il lontano antecedente del
Circolo di Vienna, fondato nel 1923 dal fisico Moritz Schlick (1882-1936), e
nucleo originario della corrente nota poi come «empirismo logico» o
«positivismo logico» o «neopositivismo».
Fu soprattutto
Hans Hahn, che insegnava all'università di Vienna, ad adoperarsi nel 1922
perché a Schlick, allievo di Max Planck, fosse affidata la cattedra di
Filosofia delle scienze induttive, che era stata di Mach e di Boltzmann. Nello
stesso 1922 Hahn, che insegnava logica simbolica e fondamenti di matematica,
dedicò il suo corso universitario al Tractatus logico-philosophicus che
Ludwig Wittgenstein (1889-1951) aveva pubblicato l'anno precedente. Nel 1923
Schlick diede vita a un seminario cui presero parte oltre a Neurath e Hahn,
Rudolf Carnap (1891-1970), che era stato allievo di Frege a Jena, Kurt Godel
(1906-1978), che oggi figura tra i più grandi logici del nostro tempo, e
altri.
Presto anche Carnap entrò a far parte del gruppo diventandone
anzi una delle figure di maggior spicco: nell'agosto del 1929 firmò con
Hahn e Neurath il manifesto del Circolo di Vienna, La concezione scientifica del
mondo, e nel 1930 fondò la rivista «Erkenntnis», espressione
del movimento neopositivista. Nel frattempo a Berlino era nato un circolo
analogo per finalità e composizione a quello viennese; ne facevano parte,
tra gli altri, Hans Reichenbach (1891-1953), che fu con Carnap direttore di
«Erkenntnis», il suo allievo Carl Gustav Hempel (nato nel 1905), ed
anche il non più giovane, ma sempre attivissimo, David Hilbert. Altri
studiosi, pur non appartenendo al Circolo di Vienna, mantennero con esso
contatti o ne influenzarono profondamente l'orientamento. Fra di loro la figura
più importante è senza dubbio quella di Ludwig Wittgenstein, anche
lui viennese, ma legato piuttosto all'ambiente accademico di Cambridge, dove
aveva studiato e stretto amicizia con Bertrand Russell, e dove avrebbe insegnato
a più riprese tra il 1930 e il 1947. Tra il 1927 e il 1932, Wittgenstein
ebbe con i membri del Circolo di Vienna diversi incontri, documentati da note e
appunti stesi dallo stesso Wittgenstein e da altri interlocutori. La differente
formazione degli studiosi che facevano capo al Circolo di Vienna non fece
ostacolo a un'attività di ricerca coordinata e diretta alla
chiarificazione delle basi e del significato della conoscenza scientifica e alla
realizzazione, come si afferma nel programma del 1929, di «una scienza
unificata che comprenda l'intera conoscenza della realtà accessibile
all'uomo». I neopositivisti condividevano la tesi fondamentale
dell'empirismo, secondo cui non esiste conoscenza che non derivi dall'esperienza
sensibile e che quindi non possa essere ricondotta ad essa. Ma accanto al
ricordo dell'empirismo tradizionale, e più di questo, agiva in loro
l'esempio di scienziati come Mach, Poincaré, Boltzmann, Einstein, che si
erano soffermati a riflettere sui fondamenti, sulla natura e sulla
validità della conoscenza scientifica. Determinante fu infine l'influenza
della logica simbolica e dell'analisi logica del linguaggio quali erano state
elaborate da Frege, e da Russell. La principale differenza che distingue il
neopositivismo dal vecchio empirismo e dal positivismo è appunto
l'importanza accordata all'analisi logica degli enunciati scientifici e alla
conseguente proposta di un criterio di significato basato sulla nozione di
verificabilità empirica. Ogni proposizione, secondo i neopositivisti,
è dotata di senso soltanto se può essere dimostrata vera o falsa
ricorrendo all'esperimento; il suo significato consiste nel metodo della sua
possibile verifica. Se insieme con una proposizione non è dato anche un
metodo per la sua verifica, allora la proposizione è priva di
significato: se per esempio, diciamo che l'ippogrifo esiste e non sappiamo come
dimostrarlo, la nostra affermazione non ha senso.
La filosofia, secondo il
neopositivismo, non ha un suo oggetto specifico, diverso da quelli di cui si
occupano le altre scienze. Essa può soltanto essere analisi logica del
linguaggio scientifico: il suo compito è di analizzare le proposizioni
delle altre scienze, mostrando la loro riducibilità ad esperienze
immediatamente verificabili e dunque assolutamente certe. Insieme a questo la
filosofia ha il compito di smascherare i non sensi della metafisica, mostrando
che le proposizioni e i termini che essa contiene sfuggono ad ogni controllo
dell'esperienza, e perciò non sono né veri né falsi, ma
semplicemente privi di senso. È quello che aveva fatto Carnap nel suo
celebre saggio Superamento della metafisica mediante l'analisi logica del
linguaggio del 1931, che prendeva di mira il testo della lezione con cui
Heidegger nel 1928, succedendo ad Husserl, aveva inaugurato i suoi corsi
all'università di Friburgo e che si intitolava appunto Che cos'è
la metafisica? Le asserzioni della metafisica hanno un senso solo come
espressione di sentimenti. La proposizione «L'anima è
immortale», per esempio, non comunica alcuna conoscenza (e cioè dal
punto di vista conoscitivo è totalmente priva di senso), ma dà
espressione al desiderio di immortalità di chi ci crede. La metafisica
può dunque essere assimilata alle attività espressive e
fantastiche, come la poesia o come il mito; con l'aggravante, però, che
di solito i suoi prodotti non sono affatto belli. Carnap definiva i metafisici
«musicisti privi di talento musicale».
L'avvento del nazismo in
Germania e poi l'annessione dell'Austria alla Germania provocarono la
dispersione dei neopositivisti, alcuni dei quali (Hempel, Frank, Carnap tra gli
altri) trovarono rifugio negli Stati Uniti. Cade nella cosiddetta «fase
americana» del neopositivismo la realizzazione, rimasta per altro
incompiuta, del progetto (già formulato nei congressi internazionali
organizzati in Europa dal Circolo di Vienna) di ridurre i vari linguaggi
scientifici (quello della sociologia, della biologia, della psicologia, ecc.) ad
un unico linguaggio in grado di utilizzare soltanto termini della fisica (da cui
il nome di «linguaggio fisicalista» o «linguaggio cosale»).
Questo programma si concretò, a partire dal 1938, nella pubblicazione a
Chicago di un'Enciclopedia internazionale della scienza unificata, diretta da
Otto Neurath, Rudolph Carnap e Charles Morris (il maggiore esponente del
neopositivismo americano) e a cui collaborarono, tra gli altri, Bertrand Russell
e John Dewey.
RUDOLF CARNAP
Rudolf Carnap (1891-1970) è stato
uno dei maggiori rappresentanti del Circolo di Vienna e del neopositivismo.
Seguendo soprattutto il Wittgenstein del Tractatus, Carnap sosteneva che due
soli tipi di proposizioni sono forniti di significato: quelli analitici della
logica e della matematica e quelli delle scienze sperimentali, che possono
essere dimostrati veri o falsi ricorrendo al controllo dell'esperienza. Prive di
significato sono invece le proposizioni della metafisica, poiché la loro
verità o falsità non può essere accertata in alcun
modo.
Benché Carnap sia sempre rimasto sostanzialmente fedele a
questa imposizione di fondo, egli è venuto via via allentando i requisiti
richiesti ad una proposizione per essere considerata dotata di significato:
mentre in un primo momento pretendeva che ogni termine di una proposizione
scientifica potesse venir accertato mediante osservazioni dirette dello
scienziato, verso la fine del suo lavoro ha sostenuto che è sufficiente
che in essi vi sia la presenza di almeno qualche termine di questo tipo. In
relazione ai modi di funzionamento delle regole logiche e alla loro natura, ha
poi proposto un «principio di tolleranza» secondo cui non esiste una
sola logica vera, ma ognuno può costruirsi la propria logica, a patto di
definire con esattezza i concetti e le regole di cui si vuole
servire.
Carnap si è anche occupato dell'aspetto semantico del
linguaggio (rapporto tra i segni logici e ciò che essi significano) e di
quello pragmatico (il linguaggio come comportamento
psico-biologico).
WITTGENSTEIN
Il neopositivismo, come si è visto,
è stato fortemente condizionato da Wittgenstein, ma è più
che dubbio che Wittgenstein possa essere assimilato a questo indirizzo di
pensiero, verso il quale, forse, non nutriva neppure eccessive simpatie.
Rispetto ai neopositivisti era molto più interessato alla linguistica che
alla matematica o alla fisica; la sua negazione della metafisica («su
ciò di cui non si può parlare si deve tacere») aveva un che
di paradossale e di provocatorio che la rendeva poco credibile come affermazione
di «positivismo» o di «empirismo». Nella metafisica, poi,
comprendeva buona parte di quello che tradizionalmente si considera appartenere
alle scienze naturali: la nozione di causa era una «superstizione»;
che le «cosiddette leggi» della scienza potessero dare una spiegazione
dei fenomeni della natura era «un'illusione», ecc. La sola
necessità ammissibile per Wittgenstein era quella della logica;
così, però, abbandonati tutti i temi che contano, e che non erano
formulabili in termini di logica simbolica, non restava che occuparsi degli
altri, prossimi al nulla.
Fino al 1953, quando uscirono, postume, le
Ricerche filosofiche, il nome di Wittgenstein è rimasto essenzialmente
legato al Tractatus del 1921, che aveva concluso la riflessione avviata una
decina di anni prima a Cambridge, a stretto contatto con Russell e Moore, e che
era stato assunto dai neopositivisti come uno dei loro punti di riferimento. Tra
le due opere c'è un sensibile scarto di atteggiamento e di stile che ha
suggerito di suddividere l'evoluzione intellettuale di Wittgenstein in due
periodi, separati dagli anni tra la pubblicazione del Tractatus e l'inizio dei
rapporti con il Circolo di Vienna, quando, ritenendo di non aver più
nulla da dire in filosofia, aveva abbandonato la ricerca e si era messo a fare
l'insegnante elementare in sperduti villaggi delle montagne austriache.
Per
il Wittgenstein del Tractatus la realtà è riconducibile a
«fatti atomici», descritti da «proposizioni elementari».
Caratteristica dei fatti atomici è quella di accadere l'uno
indipendentemente dall'altro, senza legami reciproci, casualmente. Un fatto
atomico è per esempio descritto dalla proposizione elementare
«Piove», la quale è vera o falsa se il fatto che essa descrive
esiste realmente o no (cioè se piove oppure se è bel tempo). La
conoscenza effettiva è soltanto quella che esprime dei fatti di
esperienza di questo tipo. In particolare non esiste alcuna forma di conoscenza
che possa dare una risposta ai problemi che riguardano il senso e il
perché della nostra vita. È questo il motivo per cui, come
Wittgenstein scrive, «quando tutte le possibili questioni scientifiche
hanno trovato una risposta, i nostri problemi vitali non sono stati ancora
neppure sfiorati».
Nelle Ricerche filosofiche Wittgenstein non pensa
più che l'unica forma di conoscenza possibile sia quella che riguarda i
fatti di esperienza. Ritiene invece che esista una molteplicità di
linguaggi, ognuno dei quali ha le proprie regole, che è compito della
filosofia descrivere e far rispettare. La filosofia diviene quindi una
«terapia» del linguaggio, nel senso che è chiamata a
individuare e curare le malattie da cui è affetto l'uso di molti termini.
Nelle Ricerche filosofiche Wittgenstein applica un procedimento di questo tipo:
prende dapprima in esame i diversi significati che una parola ha nel linguaggio
comune in rapporto ai diversi contesti e alle diverse situazioni in cui è
impiegata, e poi esamina le questioni filosofiche in cui la si trova coinvolta;
alla fine molte di tali questioni risultano infondate, pseudo-problemi nati
dalla confusione tra significati o tra usi diversi della stessa parola.
Così, per esempio, la filosofia tradizionale si è chiesta che cosa
sia il tempo, ed è finita in una serie di difficoltà insuperabili.
Per Wittgenstein non c'è che da riconoscere i significati della parola
«tempo» nei diversi contesti (sapere per esempio che cosa significa
che un evento si è verificato prima di una certa cosa e dopo un'altra,
sapere che ore sono, ecc.) e da constatare come qui non esista alcun
inestricabile problema filosofico, il quale sorge soltanto dall'uso improprio
del termine.
Questo compito «terapeutico» assegnato alla
filosofia e consistente essenzialmente nel segnare i limiti entro i quali
è possibile formulare degli enunciati dotati di senso è uno dei
più evidenti punti di accordo fra il Tractatus e le Ricerche filosofiche.
Per il resto le differenze sono consistenti: mentre nel Tractatus l'interesse di
Wittgenstein era diretto al discorso scientifico, nelle Ricerche (in accordo con
l'indirizzo di Moore) si volgeva al discorso comune, e mentre nel primo le
condizioni per l'uso sensato delle espressioni linguistiche venivano fissate in
maniera perentoria e univoca, nelle seconde venivano problematicamente riferite
alla varietà degli usi effettivi del linguaggio. Può darsi che la
pubblicazione integrale dei molti manoscritti ancora inediti (oltre
venticinquemila fogli) corregga in futuro l'immagine «a due tempi» del
pensiero di Wittgenstein e getti qualche altra luce sulla sua effettiva
affinità con il positivismo logico da un lato e l'opera dei suoi amici
inglesi, Russell e Moore, dall'altro. Ma a questa pubblicazione (che già
di per sé costituirebbe un'ardua impresa) si sono mostrati
imprevedibilmente restii proprio alcuni tra i suoi più vicini allievi ed
eredi spirituali.
VISTO DA RUSSELL
Bertrand Russell nella sua Autobiografia
(pubblicata in Italia, come tutte le sue opere, da Longanesi) ha fatto un
bellissimo ritratto di Wittgenstein. Ne produciamo i brani
essenziali.
«Wittgenstein era austriaco, il padre era
ricchissimo. Inizialmente voleva studiare ingegneria e si era iscritto a
Manchester a quello scopo. Studiando matematica si era interessato ai principi
della matematica pura e a Manchester aveva domandato dove avrebbe potuto
mettersi in contatto con altri cultori della materia. Qualcuno gli fece il mio
nome ed egli si stabilì a Trinity. Era, forse, l'esempio più
perfetto che io abbia conosciuto di uomo di genio, così come lo si
immagina per tradizione: appassionato, profondo, intenso e dominatore. Possedeva
quel tipo di purezza che non ho mai riscontrato in misura uguale in nessun
altro, eccettuato G.E. Moore. Ricordo di averlo una volta invitato a una
riunione della Società aristotelica; fra i presenti c'erano anche degli
sciocchi ma li avevo trattati con cortesia. All'uscita era furibondo con me
perché secondo lui, avevo dato prova di debolezza morale nell'astenermi
di dire a quei ragazzi quanto fossero stupidi. La sua vita era turbolenta
inquieta, ma egli era straordinariamente forte. Si nutriva soltanto di latte e
verdura e mi veniva spesso fatto di pensare, come Mrs Patrick Campbell a
proposito di Shaw: - Dio ci aiuti se mai gli capitasse di mangiare una bistecca
-. Soleva venirmi a trovare ogni sera a mezzanotte - si metteva a camminare su e
giù per la stanza come una belva in gabbia, e durava così per tre
ore di fila in silenzio agitato. Una volta gli chiesi: - Stai pensando alla
logica o ai tuoi peccati? - entrambi -, rispose, e continuò il suo
andirivieni. Non osavo accennare al fatto che era ora di andare a letto,
perché mi sembrava probabile, a lui come a me, che se mi avesse lasciato
si sarebbe ucciso. Alla fine del suo primo trimestre a Trinity venne da me
dicendo: - Lei crede che io sia un perfetto idiota? - Risposi: - Perché
desideri saperlo? - Replicò: - Perché, se è così, mi
faccio aviatore, ma se non è così, diventerò filosofo. -
Gli dissi: - Mio caro ragazzo, non so se sei o no un perfetto idiota, ma se
durante le vacanze scriverai un saggio, su qualsiasi argomento filosofico che ti
interessa, lo leggerò e allora potrò risponderti. - Lo scrisse e
me lo portò al principio del nuovo trimestre. Fin dalla prima frase ebbi
la certezza che si trattava di un uomo di grande ingegno e gli dissi che non
doveva diventare aviatore. [...] Quando scoppiò la guerra, Wittgenstein,
che aveva sentimenti patriottici, divenne ufficiale dell'esercito
austro-ungarico. Nei primi mesi potei scrivergli e ricevere sue notizie, ma ben
presto ciò fu impossibile e non seppi più nulla di lui fin quando,
un mese circa dopo l'armistizio, non ricevetti una lettera da Montecassino. Mi
diceva che poche settimane prime era stato fatto prigioniero dagli italiani, per
fortuna insieme con il manoscritto del libro che era andato scrivendo in trincea
e che desiderava farmi leggere. Egli era quel tipo d'uomo, il quale, quando
pensava alla logica, riusciva a non accorgersi di cose trascurabili come gli
obici che gli scoppiavano vicinissimi intorno. Mi mandò il manoscritto e
potei parlarne con Nicod e Dorothy Wrinch a Lulworth. Si trattava di quel volume
che fu poi pubblicato sotto il titolo di Tractatus Logico-Philosophicus.
Ovviamente bisognava poter discutere di persona le sue idee: la cosa migliore ci
parve fosse di incontrarci in un Paese neutrale. Scegliemmo L'Aia. A questo
punto tuttavia sorse un ostacolo sorprendente: suo padre, poco prima dello
scoppio della guerra, aveva trasferito tutti i suoi capitali in Olanda,
così che alla fine del conflitto si era trovato non meno ricco di prima.
Proprio al momento dell'armistizio il padre era morto lasciandogli quasi tutto
il suo patrimonio. Nel frattempo Wittgenstein si era persuaso che il denaro
è una seccatura per un filosofo e aveva lasciato tutto, fino all'ultimo
centesimo, al fratello e alle sorelle. Di conseguenza non aveva di che pagarsi
il viaggio da Vienna all'Aia ed era troppo orgoglioso per accettare denaro da
me. Finalmente trovammo una soluzione: i mobili e i libri che aveva avuto a
Cambridge erano ancora là dove li aveva lasciati in deposito e mi propose
di comprarglieli. Mi consigliai col mobiliere che li aveva in custodia e li
acquistai per la somma suggeritami da lui. In realtà valevano molto di
più di quanto quel brav'uomo avesse immaginato; questo è il
miglior affare che io abbia mai fatto in vita mia e così Wittgenstein
poté recarsi all'Aia dove rimanemmo per una settimana a discutere del suo
libro, riga per riga. [...] Benché logico, Wittgenstein era a un tempo
patriota e pacifista. Aveva un'alta opinione dei russi con i quali aveva
fraternizzato al fronte. Mi disse che una volta, in un villaggio della Galizia
dove si era trovato in un momento di libertà, aveva scovato un libraio e
aveva pensato che, forse, ci poteva essere qualche libro nella sua bottega.
Difatti uno ce n'era, ed era di Tolstoj, sui Vangeli. Lo comprò, lo lesse
e ne ricevette una vivissima impressione. Per un certo periodo fu profondamente
religioso, tanto da considerare me troppo corrotto per conservarmi la sua
amicizia senza danno. Per guadagnarsi da vivere divenne maestro di scuola
elementare a Trattenbach, un villaggio sperduto nella campagna austriaca. Mi
scrisse dicendo: - Gli abitanti di Trattenbach sono molto cattivi -; al che io
risposi: - Tutti gli uomini sono malvagi -, e lui replicò: - Sì,
ma gli abitanti di Trattenbach sono più malvagi degli uomini di altri
luoghi -. Replicai che una tale proposizione ripugnava al mio senso logico. La
sua opinione tuttavia poteva in certo qual modo giustificarsi. I contadini del
luogo rifiutavano di fornirgli il latte perché egli insegnava ai loro
figli a fare conti che non si riferivano al denaro. Durante tutto quel periodo
deve aver patito la fame e sopportato privazioni notevoli, benché si
potesse indurlo a parlarne assai di rado: era orgoglioso come Lucifero. La cosa
finì quando sua sorella decise di costruire una casa e volle che
l'architetto fosse lui. Questo lavoro gli procurò di che vivere per
alcuni anni, al termine dei quali ritornò a Cambridge come docente. [...]
Come tutti i grandi uomini aveva le sue debolezze. Nel 1922, nel pieno del suo
fervore mistico, quando parlando con me affermava con grande serietà che
vale assai più essere buoni che intelligenti, ebbi modo di accorgermi che
aveva un vero terrore delle vespe; inoltre, per via di un paio di cimici,
rifiutò tassativamente di passare un'altra notte in certe stanze che
aveva trovato a Innsbruck. I viaggi in Russia e in Cina mi avevano abituato a
cose del genere e non vi badavo più. Lui, invece, così convinto
che le cose a questo mondo non hanno alcun valore, non era capace di sopportare
con pazienza l'esistenza degli insetti. Ma, con tutte le sue debolezze, era pur
sempre una persona assolutamente eccezionale.
UN METODO INESISTENTE
A partire dal 1945 Popper ha insegnato
all'Università di Londra Filosofia della Scienza. «Di solito - ha
scritto nel Poscritto alla logica della scoperta scientifica edito in Italia da
Il Saggiatore - inizio le mie lezioni sul metodo scientifico dicendo ai miei
studenti che il metodo scientifico non esiste». I fondatori del metodo
scientifico (e Popper cita, tra gli altri, Platone, Aristotele, Bacone,
Cartesio)
... credevano che esistesse un metodo per trovare la
verità scientifica. In un periodo più recente e un po' più
scettico, ci furono dei metodologi che credevano esistesse un metodo, se non per
trovare una teoria vera, almeno per accertare se una data ipotesi fosse o no
vera, o (in un modo ancor più scettico) se una data ipotesi fosse almeno
«probabile» in qualche grado accertabile.
Io sostengo che non
esiste alcun metodo scientifico in nessuno di questi tre sensi. Per esprimermi
in modo più diretto:
1) Non c'è alcun metodo per scoprire una
teoria scientifica.
2) Non c'è alcun metodo per accertare la
verità di un'ipotesi scientifica e cioè nessun metodo di
verificazione.
3) Non c'è alcun metodo per accertare se un'ipotesi
è «probabile» o probabilmente vera...
A dispetto di
queste dichiarazioni (che all'inizio di un corso dedicato al metodo scientifico
dovevano produrre un certo sconcerto) Popper non aveva difficoltà a
impegnare duramente i suoi allievi nello studio, giacché, diceva,
«un anno è a mala pena sufficiente a grattare la superficie persino
di una materia inesistente». Quello di Popper non era in nessun modo un
atteggiamento antiscientifico o antipositivo.
... Io sono un
razionalista. Con il termine razionalista intendo dire un uomo che desidera
comprendere il mondo e imparare discutendo con gli altri. (Si noti che non dico
che un razionalista sia un sostenitore dell'errata teoria che gli uomini sono
completamente o prevalentemente razionali). Con «discutendo con gli
altri» intendo più specificamente criticandoli, provocando la loro
critica e cercando di trarne insegnamento. L'arte di discutere è una
forma particolare di quella di combattere, ma con parole anziché con
spade, e ispirata dall'interesse di avvicinarsi alla verità sul
mondo...
Si dice di solito che perché una discussione risulti
feconda è necessario che i partecipanti abbiano un terreno su cui
incontrarsi: delle convinzioni o quanto meno un linguaggio comune. Per Popper,
invece, quanto più distanti sono i punti di vista tanto più
fecondo può risultare il confronto. Almeno per iniziare a discutere, non
c'è bisogno neppure di un linguaggio comune: «se non ci fosse stata
la Torre di Babele - scrive - avremmo dovuto costruirne
una».
...La differenza rende feconda una discussione critica. Le
sole cose che devono avere in comune i partecipanti a una discussione sono il
desiderio di sapere e la buona volontà di imparare dall'altro, criticando
severamente le sue idee nella versione più forte che se ne può
dare, e ascoltando ciò che ha da dire in risposta.
Credo che il
cosiddetto metodo della scienza consista in questo genere di critica. Le teorie
scientifiche si distinguono dai miti solo in quanto criticabili e suscettibili
di modifiche alla luce della critica. Non possono essere però né
verificate, né rese più probabili...
Come ha vissuto
Popper questo suo atteggiamento critico e discorsivo nella «comunità
del sapere» (come la chiamava) ossia nei confronti dei suoi colleghi
filosofi e scienziati?
... Voi tutti conoscete certamente la storia
del soldato che scoprì che tutto il suo battaglione (tranne lui,
naturalmente) non marciava al passo. Io mi trovo costantemente in questa
piacevole posizione. E sono molto fortunato, perché di regola, alcuni
altri membri del battaglione sono alquanto disponibili a rimettersi al passo.
Questo aumenta la confusione, e siccome non sono un ammiratore della disciplina
filosofica, sono contento finché ci sono abbastanza membri del
battaglione che sono sufficientemente fuori passo l'uno rispetto
all'altro...
Pur non avendovi mai aderito, Popper si è formato
a stretto contatto con il Circolo di Vienna, e il suo pensiero ha influito sulla
formulazione delle dottrine neopositiviste. La sua prima opera, La logica della
scoperta scientifica, del 1934, aveva un taglio nettamente polemico nei
confronti dei neopositivisti, di cui per altro condivideva gli interessi. La sua
critica era diretta essenzialmente contro il criterio di verificazione, quello
cioè secondo il quale le proposizioni hanno un senso solo se sono
verificabili. Secondo Popper le proposizioni scientifiche possono essere
falsificate, ma non verificate, e ciò per il carattere stesso del
procedimento induttivo in base al quale esse vengono formulate. Se abbiamo
incontrato sempre e soltanto corvi neri, per induzione diciamo che «tutti i
corvi sono neri». Questa proposizione però, non può dirsi
verificata dal continuo ritrovamento di altri corvi neri perché non si
può escludere che in futuro ci si imbatta davvero in corvi che non sono
neri. Popper parla a questo proposito di asimmetria tra verificabilità e
falsificabilità: mentre nessuna serie finita di conferme può
garantire la verità di una proposizione che si pretende universale, un
solo esempio contrario (un corvo bianco) la rende falsa.
Il metodo della
scienza è insomma, secondo Popper, l'esatto opposto di quel che si crede
correntemente. La scienza non parte dall'esperienza per arrivare a formulare
delle ipotesi la cui verifica consente di costruire teorie generali. Essa,
piuttosto, propone delle teorie generali e tenta in un secondo momento di
falsificarle.
Il metodo della scienza - scrive Popper - è il metodo
«del tentativo e dell'errore», applicabile, per altro, anche alla
politica (La società aperta e i suoi nemici, 1945). Il solo modo sensato
di modificare la società in cui viviamo è di procedere cautamente
per tentativi, cercando di imparare dagli errori che inevitabilmente si
commettono.
Popper traeva dal metodo «del tentativo e
dell'errore» argomenti a favore del gradualismo e contro la pratica
rivoluzionaria. Un intervento massiccio e violento di trasformazione sociale
potrebbe avere effetti incontrollabili e tali comunque da rendere molto
difficili, se non impossibili, l'individuazione e la correzione degli
errori.
LA SCUOLA DI FRANCOFORTE
Nel 1931 Max Horkheimer (1895-1973), uno
dei massimi esponenti assieme a Theodor W. Adorno, Friedrich Pollok, Herbert
Marcuse della cosiddetta «teoria critica della società»,
assunse la direzione dell'Institut fur Sozialforschung (Istituto per la Ricerca
sociale) di Francoforte, che era stato fondato nel 1924. Da quel momento
l'Istituto avrebbe rappresentato, insieme alla sua rivista, «Zeitschrift
fur Sozialforschung», lo strumento organizzativo del gruppo noto come
«scuola di Francoforte», di cui hanno fatto parte, oltre i nominati,
anche Walter Benjamin e Erich Fromm, e che ha poi avuto un continuatore in
Jürgen Habermas. A Francoforte, però, l'Istituto restò pochissimo:
nel 1933, all'avvento del nazismo, fu trasferito a Parigi e poi a New York. Solo
nel 1950 tornò nella sua sede originaria.
La teoria critica non si
presentava come una dottrina specificamente «filosofica»: Pollok era
un economista, Fromm uno psicanalista, Adorno un musicologo e, come Benjamin, un
critico letterario, ecc. Non si presentava neppure, propriamente, come
«dottrina»: voleva essere piuttosto un ripensamento dell'analisi
marxista della società in un momento in cui era definitivamente
tramontata la prospettiva di una rivoluzione socialista mondiale, verso la quale
negli anni immediatamente successivi alla Grande Guerra si erano convogliate
tutte le energie degli intellettuali marxisti. Al posto della rivoluzione, si
assisteva, in Europa (e, quello che è peggio, nell'allora URSS, che
era il solo Paese in cui la rivoluzione avesse avuto successo), all'affermazione
di regimi totalitari che, per quanto detestabili, mostravano di aver capito,
interpretato e sfruttato con ammirevole tempestività quelle
caratteristiche della nuova società di massa uscita dalla Grande Guerra,
che gli intellettuali rivoluzionari non erano stati capaci, invece, né di
prevedere, né, tanto meno, di controllare. Si trattava, dunque, prima di
tutto di capire dove i marxisti avessero sbagliato e poi di fare i conti da un
lato con l'approccio tradizionale delle scienze sociali di derivazione
più o meno direttamente positivistica, dall'altro con le suggestioni
allora dilaganti della fenomenologia e dell'esistenzialismo.
Trattandosi di
marxisti, una complicazione in più era rappresentata dall'ambigua natura
del comunismo dell'età staliniana, depositario in tutto il mondo delle
aspettative di liberazione di grandi masse popolari (e come tale principale
antagonista del fascismo), ma insieme responsabile della forma forse più
sofisticata di totalitarismo. Di questo totalitarismo era parte integrante una
versione caricaturale e dogmatica del marxismo, che, fondata sulle scalcinate
teorie di Lenin e sulle poco felici fantasie «dialettiche» del vecchio
Engels, venne codificata da Stalin in persona in un opuscolo del 1938 intitolato
Materialismo dialettico e materialismo storico. Il disorientamento era
inevitabile e poteva accadere, per esempio, che il «reazionario»
Wittgenstein tornasse entusiasta dall'URSS, mentre il «marxista»
Benjamin scopriva con sorpresa e disgusto quanto fosse stupido il mondo dei
burocrati moscoviti.
Uno dei grandi meriti della scuola di Francoforte
è di aver preservato un'immagine critica del marxismo in un momento in
cui, a parte le schiere degli opportunisti, anche alcuni grandi intellettuali,
come Gyorgy Lukacs, nel timore di essere esclusi da quelle che bene o male erano
pur sempre le organizzazioni politiche del proletariato, facevano mostra di
accettare le dottrine ufficiali dei partiti comunisti, magari tentando di
reinterpretarla in qualche modo o di portarle, all'insaputa dei burocrati del
partito (e cioè nascondendole sotto uno spesso strato di citazioni di
Marx e di Engels, e soprattutto di Lenin e di Stalin), correzioni tali da
renderla presentabile. Toccò principalmente ad Horkheimer definire
l'indirizzo del gruppo di Francoforte, sia direttamente in una serie di saggi
scritti per la «Zeitschrift fur Sozialforschung» (raccolti in volume
nel 1968 col titolo di Teoria critica), sia indirettamente, attraverso la linea
redazionale impressa alla rivista di cui era direttore. In sostanza Horkheimer
collegava l'analisi marxista della società alla psicoanalisi, e non tanto
per un ennesimo tentativo di «integrazione», quanto perché era
interessato a rilevare l'affinità di fondo tra l'opera di Marx e quella
di Freud: entrambi avevano smascherato il carattere falsamente
«oggettivo», «necessario» di realtà quali la
struttura economica della società e l'inconscio, riconducendole ai
processi effettivi (anche se inconsci) dell'alienazione economica in un caso e
della rimozione delle pulsioni istintuali nell'altro.
Veniva di qui il
tema, ricorrente nelle opere del gruppo, dell'analogia tra i sistemi che nella
società garantiscono il dominio di una classe sulle altre e i meccanismi
psicologici che presiedono alla repressione degli istinti. Ma di qui,
soprattutto, veniva la possibilità di identificare ragione e
felicità e quindi di riproporre il razionalismo come teoria di
liberazione e strumento di emancipazione nei confronti tanto dei feticci della
società capitalistica (Horkheimer-Adorno, Dialettica dell'Illuminismo,
1947; Adorno, Minima moralia, 1951; Marcuse, Eros e civiltà, 1955) quanto
delle mistificazioni dello stalinismo (Marcuse, Marxismo sovietico,
1958).
THEODOR ADORNO
Il W. di Theodor W. Adorno sta per
Wiesengrund, che era il cognome, non particolarmente elegante, del padre di
Theodor e quindi dello stesso Theodor, che infatti si chiamò così
per un bel po'. Poi, per una civetteria che in un grande intellettuale e in un
grande razionalista come lui ha il sapore impagabile dell'autoironia, Theodor
volle adottare il nobile ed esotico cognome della madre, una cantante lirica,
lontanissima discendente di un'antica e aristocratica famiglia genovese (gli
Adorno, appunto); di quello del padre, un vinaio ebreo di Francoforte, non
conservò che l'iniziale.
Da giovane Theodor Adorno (1903-1969) aveva
seguito a Vienna i corsi di composizione di Alban Berg. Nel 1931 si era laureato
in filosofia con una tesi sulla fenomenologia di Husserl ed aveva ottenuto la
libera docenza all'Università di Francoforte. Coordinatore, insieme ad
Horkheimer, della «Rivista per la ricerca sociale», dopo l'avvento del
nazismo fu costretto, per le sue origini ebraiche e per le sue convinzioni
politiche, ad emigrare in America. Alla fine della seconda guerra mondiale
rientrò in Europa dedicandosi alla ricerca e alla docenza
universitaria.
Come critico musicale aveva aderito ai movimenti artistici
di avanguardia degli anni Venti, sostenendo la ricerca compositiva di Schonberg
che condurrà alla dissoluzione del tradizionale campo tonale e alla
musica dodecafonica. Nella sua analisi sulla situazione della musica nel mondo
contemporaneo Adorno ha ripreso esplicitamente le riflessioni di Karl Marx sul
fenomeno della mercificazione che, nelle società industrializzate, domina
ogni aspetto della produzione: i rapporti fra le persone assumono il carattere
reificato (di «cosa») dei rapporti fra oggetti inanimati. Adorno
estendeva però l'analisi di Marx dal campo dell'economia a quello della
cultura. La produzione artistica (e quella musicale in particolare) non si
sottrae al destino della mercificazione: nella società capitalistica lo
scopo è in ogni caso di accumulare denaro. La musica è una merce
prodotta dall'industria culturale e si adegua alla logica della
vendibilità. Anche la sensibilità e il gusto degli spettatori,
manipolato dall'industria culturale, si deforma, regredisce ad un livello rozzo
ed infantile.
Acuto critico delle false libertà borghesi, Adorno ha
denunciato gli elementi di totalitarismo presenti anche nelle moderne democrazie
di massa. Se nel mondo capitalistico l'oppressione non si presenta più
con il volto dello sfruttamento brutale, della fame e della miseria, il prezzo
del benessere è l'alienazione: la manipolazione attuata dal sistema
attraverso i canali di diffusione di massa (cinema, televisione,
pubblicità) riduce l'individuo ad ubbidiente ed ottuso consumatore privo
di autonomia di giudizio e di senso critico.
Adorno ha abbandonato alla
fine la speranza in una rivoluzione sociale; anche il proletariato, tradizionale
classe antagonista al «sistema», ha accolto i falsi valori della
società consumistica. L'unica alternativa è il rifiuto radicale
opposto dall'intellettuale ad ogni forma di integrazione sociale. Questa
analisi, che escludeva ogni dimensione sociale dell'emancipazione, ha prodotto
profonde incomprensioni fra Adorno e gli studenti universitari tedeschi nel
Sessantotto, al tempo della contestazione giovanile.
HERBERT MARCUSE
Herbert Marcuse (1898-1979) ha avuto un
largo seguito fra gli studenti all'epoca della contestazione giovanile. L'aspra
critica al mondo contemporaneo espressa con L'uomo a una dimensione (1964) ha
influito notevolmente sul modo di pensare e sulle parole d'ordine di quella
generazione che nel Sessantotto è scesa nelle piazze, ha occupato le
università, contestando la cultura, la mentalità, i modi di vita,
i rapporti di potere del «sistema» borghese. Secondo Marcuse il
livello tecnologico raggiunto dal mondo tardo capitalistico, ben lungi dal
soddisfare le aspirazioni sociali alla libertà e alla felicità, ha
creato falsi bisogni, riducendo l'uomo ad una sorta di automa spersonalizzato,
schiavo di un consumismo ottuso. Anche le forze tradizionalmente antagoniste al
sistema(il proletariato) hanno perso, nel mondo industriale contemporaneo, la
loro volontà eversiva, attirate dal miraggio di un benessere pagato col
duro prezzo della alienazione. Gusti, tempo libero, cultura: tutto si uniforma
ad un modello di comportamento imposto attraverso la sottile persuasione delle
immagini televisive, dei rotocalchi, della pubblicità. Nella sua folle
corsa dietro prodotti sempre più inutili e sofisticati, l'uomo perde se
stesso, consuma in una vita opaca e insoddisfatta. Al margine di questa
società opulenta e infelice, Marcuse ha individuato però negli
emarginati, nei giovani, nelle donne i nuovi soggetti rivoluzionari capaci di
esprimere l'aspirazione ad una esistenza non repressa in cui il principio di
piacere possa esplicarsi liberamente (Eros e civiltà, 1955).
Herbert Marcuse
JÜRGEN HABERMAS
Secondo Jürgen Habermas, nato nel
1929, e allievo negli anni Cinquanta dell'Istituto per la ricerca sociale di
Francoforte, il maggior merito del marxismo è di aver intimamente
collegato la conoscenza all'interesse (Conoscenza e interesse, 1968), di aver
cioè finalizzato l'analisi teorica all'obiettivo pratico-rivoluzionario
della liberazione della società. Oggi però una teoria interessata
all'emancipazione sociale deve tener conto dei fenomeni nuovi che caratterizzano
il tardo-capitalismo rispetto al mondo ottocentesco analizzato da Karl
Marx.
Per poter di nuovo ispirare una strategia rivoluzionaria, il
materialismo storico va ricostruito (Per la ricostruzione del materialismo
storico, 1976). All'attuazione di una società veramente libera dal
dominio non è sufficiente che l'uomo estenda il proprio controllo sulla
natura attraverso il lavoro e la tecnica, né che instauri nuovi rapporti
produttivi, sganciando le forze della produzione dagli interessi padronali;
è anche necessario che si creino nuovi rapporti fra gli uomini basati non
sulla violenza e sulla coercizione, ma sul consenso razionale, maturato
attraverso la riflessione e il dialogo collettivo.
Contro l'apparente
nazionalizzazione del mondo rappresentata dalla tecnocrazia Habermas ha
rilanciato i valori e gli strumenti dell'Illuminismo: la libertà,
l'eguaglianza, il cosmopolitismo, il buonsenso come mezzo di convivenza e di
comprensione reciproca, l'intelligenza come strumento per rivelare e
ridicolizzare le mistificazione e le imposture con cui il potere, anche nelle
democrazie, delude o vanifica il diritto dei cittadini a decidere e ad
autogovernarsi. Certo, oggi è impossibile riprodurre l'ingenua fiducia
settecentesca nel trionfo finale della ragione. La superstizione, il fanatismo,
l'odio scervellato per chi è diverso, l'ammirazione altrettanto
scervellata per la forza e per il potere, l'adorazione delirante delle masse per
quei mediocri attori che nello scenario del potere interpretano il ruolo di capi
carismatici sono troppo presenti per consentire facili speranze. Ma, come
dicevano i vecchi illuministi, la ragione è come la lampada del viandante
che di notte si trova ad attraversare una foresta: non può illuminare la
foresta, ma serve a fare un passo dopo l'altro e in ogni caso è l'unica
luce disponibile. La cosa più stupida sarebbe lasciarla spegnere come
vorrebbero gli irrazionalisti di ogni genere, fede e scuola.
ERNST BLOCH
Ernst Bloch (1885-1977) non appartiene
propriamente alla scuola di Francoforte, su cui però ha esercitato un
notevole influsso. Più anziano dei fondatori della teoria critica, li
aveva preceduti sia nell'adesione al marxismo, sia nell'accentuazione del
carattere utopico e anticipatore del pensiero: la ragione ha per Bloch
essenzialmente la funzione di organizzare desideri e aspirazioni in progetti di
azione, per la costruzione di un mondo conforme ai bisogni e alle speranze
dell'uomo. Il suo marxismo, in verità, era alquanto superficiale: quel
che gli stava a cuore era dire e ribadire che la razionalità della storia
non significa (come pretendeva Hegel) razionalità di ciò che
esiste, non è cioè giustificazione e apologia del «già
fatto», ma è (come avevano suggerito Marx e la sinistra hegeliana)
una razionalità tutta da realizzare, la razionalità del «non
ancora esistente» e cioè del futuro da inventare e da
costruire.
Per il resto, il «materialismo» di Bloch era un
singolare impasto di materialismo dialettico e di naturalismo rinascimentale,
non privo di un pizzico di panteismo e di esoterismo. Sopravvalutava il ruolo
avuto dal pensiero magico e alchemico nella formazione della coscienza moderna e
ne condivideva in sostanza alcune concezioni: quella della materia, per esempio
intesa come principio dinamico, attivo, che (per dirla con Aristotele) non
«riceve» la forma, ma la «ricerca» con avidità, con
bramosia, ne ha fame. Su tutti agivano poi le vecchie suggestioni dell'ebraismo:
la connessione di natura e storia in un'unica vicenda cosmica, e soprattutto la
centralità della nozione di speranza. Questa forte presenza della
religiosità ebraica spiega come il «marxista» Bloch abbia
potuto influenzare, oltre ai pensatori della scuola di Francoforte, anche alcuni
teologi (in particolare protestanti).
All'avvento del nazismo, Bloch,
comunista ed ebreo, fu costretto ad abbandonare la Germania. Vi rientrò
al termine della guerra, scegliendo di stabilirsi nella Germania Orientale.
Insegnò per diversi anni all'Università di Lipsia. Ma Bloch era
troppo intelligente per essere tollerato dal regime comunista e per tollerarlo.
Sospeso dall'insegnamento, nel 1961 è passato dalla Germania Occidentale
ed ha insegnato all'Università di Tubinga.
RICORDANDO FRANCOFORTE
Negli anni Sessanta, gli anni della Grande
Contestazione, Furio Cerutti studiava a Francoforte. Sul «Manifesto»
del 27 agosto 1979, nel decennale della morte di Adorno, ha rievocato
l'atmosfera di quello straordinario momento che vide, tra l'altro, il
progressivo distacco tra i fondatori della teoria critica e i Movimenti
giovanili (l'SdS è l'organizzazione degli studenti tedeschi) la cui
azione contestatrice voleva essere la pratica attuazione di quella stessa
teoria.
... Vidi la prima volta [Adorno] a Heidelberg nel 1964,
compassato presidente della società tedesca di sociologia al congresso su
Max Weber in cui la relazione di Marcuse, l'unico temperamento irrispettoso e
ribelle del gruppo, suscitò indignazione e plateali proteste in quel
pubblico che riuniva il fior fiore della sociologia accademica mondiale, da
Talcott Parsons a Raymond Aron.
Lo rivedevo spesso se usciva di casa nel
primo pomeriggio - abitavo allora vicino all'Istituto per la ricerca sociale la
casa madre della teoria critica - quando la sua figura bassa e rotondetta
trotterellava in istituto a braccetto della moglie Gretel, anche lei un pezzo di
storia esoterica della scuola: e la scappellata con cui rispondeva al saluto
avveniva, se si era d'estate, agitando un panama o una paglietta, non ricordo
bene, che non era l'unica cosa deliziosamente demodé in questo teorico
delle avanguardie. E capitava non di rado di sentirne la voce ben modulata
aprendo la radio negli orari delle trasmissioni culturali: ricordo di aver
ascoltato così la conversazione sulle sue esperienze scientifiche in
America, e quella sul tempo libero, ora entrambe in Parole chiave. E una volta
trasmisero anche i suoi lieder del 1927, un breve ciclo scritto poco dopo aver
frequentato a Vienna il corso di composizione di Alban Berg; e in realtà
c'è in tutto Adorno un forte influsso viennese, di Vienna - voglio dire -
come categoria dello spirito. Ma naturalmente l'Adorno più presente e
più influente era quello dell'Università. Ricordo le sue lezioni
affollatissime sulla terminologia filosofica, protrattesi per più
semestri. Ricordo appena il suo seminario di sociologia, che frequentai
pochissimo perché ripercorreva la ricerca sulla authoritarian
personality, che mi sembrava più utile leggersi per conto proprio (Adorno
e Horkheimer avevano cattedre doppie, di sociologia e filosofia). Ricordo bene
invece il seminario filosofico, nominalmente condotto insieme con Horkheimer, il
quale però lasciava di rado il suon buen retiro ticinese e quando c'era
si limitava per lo più ad ascoltare con aria sorniona, da gran signore
annoiato. C'era tutta la corte: gli assistenti, verso cui si diceva, i due
vecchi non avevano mancato di esibire le loro tentazioni professorali ed
autoritarie; i laureandi e gli studenti preferiti e buona parte della crema
intellettuale dell'SdS (ci passò anche Angela Davis, che studiò un
anno o due a Francoforte. Appartata in un angolo, c'era non di rado anche una
giovane signora bionda, l'amica ufficiale di Teddi, il nome familiare di Adorno,
comune anche fra gli studenti, mentre nessuno si sognava di dire Max per
riferirsi a Horkheimer). Più era viva la discussione, più numerosi
gli interventi dei prediletti, più Adorno si scaldava e sprizzava
contentezza. Il suo seminario gli sembrava manifestamente divenuto il centro del
mondo, almeno di quello dello spirito: si veniva a parlare, che so, di Sartre, e
allora la sua frase preferita era «peccato che Sartre non sia qui,
altrimenti potremmo discuterne con lui». Quando poi gli riusciva finalmente
di far emergere il senso che gli sembrava più denso e significativo, si
alzava addirittura in piedi e ci annunciava con voce vibrata «meine Damen
und Herre questo è altamente dialettico», muovendo intorno quegli
occhi straordinari che cambiavano di segno a quella che era altrimenti la faccia
del vinaio o del droghiere Wiesengrund. Confesso di non aver seguito con molto
impegno i seminari di Adorno. Ne frequentai uno sulla Scienza della logica di
Hegel, in cui - come sempre capita - non si andò oltre l'analisi delle
prime 30 pagine; e poi quello che Adorno tenne sulla sua Dialettica negativa
allora (1967) appena uscita. Mi irritava quel tanto di incontrollata
vanità che c'è nel tenere un seminario su di un'opera propria;
forse oggi sarei meno severo, ma pedagogicamente mi pare tuttora un errore.
Soprattutto avevo da ridire sul taglio filosofico e speculativo preso dal
pensiero di Adorno in cui le categorie astratte sì, ma analiticamente
fondate e moderne della critica dell'economia politica rischiano di divenire
larve concettuali buone a tutto. Lavoravo allora con Habermas e preferivo
nettamente l'atmosfera più scientifica e più politica
nonché più scanzonata del suo gruppo. Solo più tardi in
Italia ho riletto con maggiore disponibilità la Dialettica negativa, ma
non ho mai condiviso la ricezione prevalentemente o esclusivamente filosofica
che dei francofortesi si è instaurata da noi e ho continuato a preferire
l'Adorno saggista - quello di Prisma, per intenderci, più che dei Minima
moralia - e sociologo...